Diga del Vajont: Visitare la Diga del Disastro

Diga del Vajont Friuli Venezia Giulia

Diga del Vajont: un Capolavoro di Ingegneria

Diga del Vajont Friuli Venezia Giulia

Dove si trova

La diga del Vajont è tuttora in piedi e ancora molto solida. Erroneamente si pensa che durante il disastro del Vajont sia stata la diga a cedere e a causare le quasi 2000 vittime della notte del 9 Ottobre 1963, ma in realtà non è così. La diga infatti è stata solamente leggermente scalfita ed, anche per questo, è diventato un modello imitato anche all’estero. La diga del Vajont si trova in Friuli Venezia Giulia, nella provincia di Pordenone e più precisamente nel territorio comunale di Erto e Casso, in corrispondenza dello scorrere del torrente Vajont (immissario del fiume Piave) il quale nasce nella Prealpi Carniche e costeggia il tristemente famoso monte Toc lungo le province di Belluno e Pordenone.

Riassunto del disastro del Vajont e della costruzione della diga

Il Grande Vajont: il progetto della Banca dell’Acqua

Siamo nel ‘900 e l’Italia è in piena espansione da rivoluzione industriale. Il nostro paese è relativamente povero di carbone e quindi ha la necessità di trovare vie alternative per produrre tutta l’energia utile alla sua produzione, cercando quanto più possibile di non acquistarla dai paesi vicini. In questo scenario iniziano a diffondersi le centrali idroelettriche e la costruzioni di dighe, soprattutto nel nord Italia. Prima della costituzione dell’ENEL la gestione dell’energia era piuttosto frazionata all’interno del territorio italiano; nel nord est era attiva la società idroelettrica Veneto, poi assorbita nella SADE (Società Adriatica di Elettricità), e proprio a questa venne l’idea di sfruttare il torrente Vajont per la produzione di energia verso gli inizi del secolo scorso.

In questo scenario l’ingegnere Carlo Semenza nel 1926 inizia a gettare le basi del progetto del Grande Vajont, con la presentazione ufficiale nel 1929 corredata anche di relazione del professore Hug che valida l’idoneità del territorio per la diga sconsigliando di costruirla in una posizione più a valle. Cominciano quindi degli approfonditi studi geologici che nel 1930 culminano in una relazione del geologo Giorgio del Piaz sull’idoneità del terreno per l’assenza di frane.

Nel 1937 viene però presentato un nuovo progetto, in cui la diga è spostata più a valle, in corrispondenza della strada che da Longarone sale verso Erto e Casso e nel quale il massimo invaso è previsto a 660 metri sul livello del mare. A questo progetto viene allegata una nuova analisi del professore Hug che estende la validità delle sue affermazioni anche a questa nuova posizione, nonostante in documenti risalenti al primo studio si fosse espresso in maniera fortemente contraria a questa posizione per via della tenuta della roccia.

Perché creare il bacino d’acqua

Lo scopo del progetto “Grande Vajont” è quello di creare un unico bacino di raccolta acqua, tra tutti quelli presenti nelle vicinanze che non soffrisse della stagionalità delle piogge e che potesse servire anche il territorio di Venezia e tutto il Triveneto anche nei periodi di secca dei corsi d’acqua, in particolare del fiume Piave. Si tratta quindi della grande banca d’acqua. Nel bacino del Grande Vajont confluiranno le acque della diga di Pieve di Cadore, del bacino di carico della centrale presente in Val Gallina e dei laghi di Pontesei, di Valle di Cadore e di Vodo, tramite delle tubazioni appositamente create per mantenere un dislivello minimo necessario per non far perdere di potenza all’acqua. Si tratta quindi di un progetto che sfrutta il principio dei vasi comunicanti e per il quale la posizione individuata è la migliore per la costruzione di quella che sarebbe (e sarà) la diga a doppio arco più alta del mondo. Si tratta di una diga a doppio arco perché è curva sia in senso orizzontale che in senso verticale nella sua struttura in calcestruzzo.

L’approvazione del progetto

A seguito dei progetti e delle relazioni sviluppate, nel 1940 viene presentata la domanda ufficiale di costruzione della diga del Vajont. Questa viene ripresa in esame e approvata nel 1948, sospensione dovuta alla seconda guerra mondiale,  e con l’occasione l’altezza della diga capace di contenere oltre 58 milioni di metri cubi di acqua venne portata a 202 metri raggiungendo i 679 metri sul livello del mare.

La costruzione della diga

Nel 1957 cominciano i lavori di costruzione delle diga e da subito si inizia a monitorare il monte Toc e la risposta del suo suolo all’invaso. Nonostante i continui controlli inizialmente non risulta nessun problema, ma nel 1959, grazie a una ricognizione sul campo del geologo Edoardo Semenza (figlio del progettista) si scopre un grosso taglio nel terreno per una lunghezza di circa 1,5 km che fa subito pensare alla possibile presenza di una paleofrana. Nonostante questo i pareri sono contrastanti (probabilmente con dolo) e un altro geologo, Pietro Caloi, nel Novembre dello stesso anno indica come incredibilmente solido il versante del Monte Toc.

Gli invasi e i primi segni di cedimento

Si procede quindi con i lavori di costruzione che terminano nel 1959 e a cui seguono le prime prove di invaso. Già dall’inizio le cose non vanno benissimo, infatti nel Novembre del 1960, quando l’acqua raggiunge i 650 metri sul livello del mare, si crea una frana di medie dimensioni sul versante sinistro, che coinvolge circa 500 metri di lunghezza del terreno e che provoca un’onda di circa 10 metri di altezza, che non causa alcuna conseguenza. Subito Muller, un esperto austriaco in esplorazioni minerarie già interpellato, si rimise a studiare il territorio e ipotizzò diverse soluzioni per evitare nuove frane nonostante fosse ancora convinto dell’assenza della paleofrana che in realtà andava ampliandosi. La soluzione più attuabile, tra quelle proposte, è quella di creare un grande tunnel alla base dello strato permeabile del monto Toc che servisse per raccogliere le infiltrazioni d’acqua e restituirle al bacino della diga del Vajont.

Allarmati, i progettisti, continuano ad effettuare studi sulla possibilità di un eventuale disastro e viene anche ricreato un modello in scala 1 a 200 che riproduca l’intera area dell’invaso e simuli la possibilità di una frana su di un piano inclinato di 30 / 40 gradi e con una velocità di distacco di circa 1 minuto (piuttosto veloce). I test, divisi in due fasi, vengono effettuati con l’utilizzo di gaia e di materiali più compatti, aumentandone progressivamente il piano di inclinazione per rendere sempre più critico il fenomeno. Tutti i test danno esiti positivi, concludendo che eventuali onde anomale sarebbero contenute all’interno della diga più alta del mondo.

A questo punto si decide di procedere con un lento svuotamento del bacino, al ritmo di 4/5 metri alla volta per portare il livello dall’acqua a 600 metri sul livello del mare. Ad ogni abbassamento vengono aspettati diversi giorni affinché il terreno circostante possa adattarsi alla nuova situazione e rimanga sicuro per eventuali rinvasi fino a 700 metri (limite imposto per esigenze di collaudo). Tutto procede egregiamente e la frana sembra bloccarsi in pochissimo tempo.
Inoltre prendono il via anche i lavori per creare una galleria di “sorpasso frana” lunga quasi 2 chilometri e del diametro di quasi 5 metri e che supera il crinale del monte Toc e conduce l’acqua oltre la zona pericolante. Questi lavori, iniziati nel Febbraio del 1960, terminano nell’Ottobre dello stesso anno grazie all’impiego di due ditte per velocizzare quanto più possibile i lavori.

Purtroppo la frana del 1960, seppure nessuno se ne sia accorto chiaramente, è un pericolisissimo precedente, che crea una fenditura a forma di M nel terreno lunga oltre 2 chilometri e mezzo sulle pendici settentrionali del monte Toc.

Gli invasi successivi

Si procede con il secondo test di invaso della diga del Vajont, con l’idea di farlo seguire a breve da una svuotamento piuttosto rapido, con l’obiettivo di far franare in maniera controllata quella parte del monte Toc che si era ormai capito non essere stabile. La prova riesce, ma le parti di monte che si staccano sono molto inferiori a quanto ci si aspetta. Ciò fa considerare la seconda prova di invaso un fallimento.

Dal 1961 al 1963 seguono numerose altre prove di invaso e svaso con anche l’obiettivo di limitare quanto più possibile eventuali smottamenti una volta che la grande diga del Vajont entrerà in funzione. La situazione però non è delle più rosee, infatti gli abitanti dei paesi più vicini alla diga denunciano frequenti terremoti e forti boati provenire proprio dall’area del bacino idrico.

Il 4 Settembre del 1963 l’acqua arriva fino al livello di 710 metri sul livello del mare, superando quindi anche il limite massimo prestabilito dei 700 metri, ma i continui movimenti tellurgici spingono l’ENEL che durante quest’anno è entrato in possesso della grande diga del Vajont a procedere ad un abbassamento del livello dell’acqua al fine di scongiurare un’eventuale onda anomala capace di scavalcare anche la grande struttura in calcestruzzo.

Il disastro della diga del Vajont

Purtroppo l’intervento è tardivo, infatti durante l’ennesimo svasamento, il 4 Ottobre 1963 alle 22.39 si stacca dal Monte Toc una frana lunga ben 2 km che porta con se oltre 270 milioni di metri cubi di terra e roccia che in soli 20 secondi arrivano fino a valle dando vita a una grande scossa di terremoto e riempiendo il bacino di acqua della diga del Vajont.
E’ sera e molte donne e bambini sono a casa in attesa della notte, mentre in occasione di una seguitissima partita di calcio molti uomini si trovano nel bar di Longarone a guardare il match. Improvvisamente la scossa di terremoto fa saltare l’elettricità in tutti i paesi e viene accompagnata dal forte boato che lo smottamento di tutto quel terreno ha creato. A Longarone già da diverso tempo c’è molta preoccupazione riguardo alla diga e ai movimenti del monte Toc, perciò in fretta si capisce cosa sta succedendo. Purtroppo capire la portata del disastro che va compiendosi non serve a salvare molte vite, infatti la frana dà vita a tre grandi onde: la prima si muove verso l’alto e raggiunge le abitazioni di Casso per poi ricadere su se stessa, un’altra muovendosi più vicina al bacino raggiunge le abitazioni di Erto, distruggendone alcune intere località e l’ultima, la più potente di circa 50 milioni di metri cubi d’acqua, sovrasta la struttura della diga e si dirige veloce verso la valle inondando e portando morte (quasi 2000 persone) in tutta la zona meridionale di Longarone.

La potenza distruttiva della natura è talmente grande che si stimerà aver creato uno spostamento d’aria pari a quello creato dalla bomba atomica sganciata su Hiroshima durante la seconda guerra mondiale. Subito partono i pompieri per tentare di dare soccorso alle popolazioni colpite dalla calamità, ma quelli partiti da Belluno non riusciranno a raggiungere Longarone a causa della strada non più percorribile dopo il passaggio della grande onda anomala. I soccorsi arrivati da nord capiscono solo durante le primi luci dell’alba il disastro che si è appena consumato e nei giorni successivi si passa, con anche l’aiuto degli alpini, a cercare le salme. Dei circa 2000 dispersi ne vengono ritrovati e ricomposti circa 1500, molti dei quali non è però possibile riconoscere.

Le indagini e la ricostruzione

Cominciano a breve le indagini per capire quanto successo e a chi appartiene la colpa di una tale cecità nei confronti degli evidenti segnali dati dalla natura durante tutta la storia della diga del Vajont, la quale non ha riportato che pochi graffi diventando a tutti gli effetti un esempio di grande opera estremamente resistente e opera di ingegneria da imitare. Le sentenze si concludono in circa sette anni e mezzo condannando buona parte degli attori che presero parte agli studi e alla costruzione della diga del Vajont.

Nel 1971 la parte di Erto che non venne distrutta dalla tragedia, viene trasferita in un nuovo comune appositamente creato e chiamato proprio Vajont, mentre nel frattempo viene costruito il quartiere “Nuova Erto” a Ponte delle Alpi in provincia di Belluno.

Prima di passare alla visita guidata, penso sia importante sottolineare che il nome del monte Toc, da cui è partita la frana, in dialetto bellunese significa “pezzo”, ma che è anche l’abbreviazione di “patoc” che in friulano significa “marcio” o “fradicio”..

Visita alla diga del Vajont

Oggi è possibile fare una visita piuttosto suggestiva alla diga del Vajont, attraverso frequenti visite guidate (una ogni mezz’ora/un’ora) condotte da volontari del luogo, che nelle loro parole a tratti commosse, rivivono e fanno vivere ai turisti tutta la storia. La cosa che più mi ha impressionato è la passione con la quale parlano e la sensazione che danno di doversi discolpare per quanto successo, come se la tragedia potesse essere stata in qualche modo colpa loro. Spesso fanno riferimento all’assenza di altri progetti simili da cui imparare, spesso all’estrema necessità di creare una fonte di energia alternativa che potesse supportare la produttività del nord est nell’arco di tutto l’anno.

Il centro informazioni della diga del Vajont

Lasciata l’automobile in uno dei piccoli parcheggi che si trovano sulla strada si raggiunge il centro informazioni attraverso la strada che sovrasta quello che è stato il bacino della diga del Vajont. Da qui si ha una chiara vista sulla frana del Monte Toc, ancora oggi privo di vegetazione nel terreno crollato, e si vede solo una parte, circa un quarto, dell’altezza della diga del Vajont: nonostante sembri già così piuttosto alta, altri tre quarti del doppio arco in calcestruzzo riposano sotto i detriti che la frana del monte si è portato con se.

La visita guidata

Raggiungendo il punto di incontro per la visita guidata, sulla destra si trova un’area dove diversi ragazzi fanno arrampicata sul monte, mentre sotto al centro informazioni è presente una sorta di memoriale: centinaia di bandierine sventolano al vento riportando scritti i nomi delle vittime della tragedia della diga del Vajont. Continuando a percorrere il sentiero si arriva fin sotto la parte interna della diga. Torniamo su e ci raduniamo alla piccola chiesetta costruita proprio davanti alla diga del Vajont, qui ci accoglie la nostra guida che ci porta attraverso un percorso guidato proprio sopra la struttura della diga, dove una volta scorreva una piccola stradina e che oggi è possibile percorrere solo attraverso le visite guidate. Una gabbia metallica protegge i turisti da eventuali cadute, anche se chi soffre di vertigini può avere comunque qualche problema.
La visita guidata alla diga del Vajont, a cui hanno accesso anche eventuali cani che viaggiano con voi, dura circa un’ora ed è un’esperienza da fare senza meno. Si tratta di una visita estremamente evocativa e che riesce a far entrare in pieno nei fatti successi oltre 50 anni fa, ma che ci ricordano quanto la natura è padrona sulla nostra vita.

Terminata la guida è possibile portare a casa un ricordo grazie ai piccoli stand che vendono libri sull’avvenimento e, a differenza delle solite bancherelle, anche qui si respira un clima di forte partecipazione: ad esempio la commessa di una banchetta è una donna che ha vissuto la terribile esperienza e che con passione mostra un plastico in cui spiega per filo e per segno gli avvenimenti.

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Diga del Vajont: Visitare la Diga del Disastro4 Ottobre 1963: il disastro della diga del Vajont. Le foto e i dettagli della visita e la storia della tragedia che con un'onda ha spazzato via 2000 vitehttps://www.lorenzotaccioli.it/diga-del-vajont-visitare-diga-disastro/
Lorenzo Taccioli