Vivian Maier è salita alla ribalta negli ultimi anni, grazie alla storia romanzesca della sua vita e del suo successo, arrivato solo dopo la sua morte. Incuriosito da questa artista iniziai a documentarmi per conoscere qualcosa di più e, saputo di una sua mostra a Milano alla spazio Forma Meravigli mi decisi di visitarla. Purtroppo entrambe le volte che ci provai avevo un treno da prendere e la lunga coda all’esterno della mostra mi impedì di entrare. Quale migliore occasione se non una seconda edizione della mostra a Palazzo Pallavicini di Bologna?
La storia di Vivian Maier è molto affascinante e questo ha sicuramente contribuito ad aumentare l’interesse verso questa donna e le sue fotografie. Nata a New York nel 1926 e dopo aver trascorso l’intera vita a fare la bambinaia o la governante, muore a Chicago nel 2009.
Vivian Maier ha un carattere duro e raramente dà confidenza alle persone a lei estranee. Si sposta a vivere di famiglia in famiglia a seconda di che le concede un posto di lavoro. Ogni trasloco verso una nuova casa diventa sempre più pesante, a causa dei grossi scatoloni pieni di negativi che si porta dietro. Negli anni la quantità di negativi diventa talmente grande che rischia di far crollare il solaio di una casa in cui svolgeva il suo lavoro di governante.
Questo è il momento in cui Vivian Maier si rende conto di avere necessità di un posto dove sistemare le sue cose e così prende un box in cui sistemare la grande quantità di fotografie prodotte.
Della vita di Vivian Maier non si sa molto, e quello che si sa è stato ricostruito dopo la sua morte quando si cercarono informazioni su questa autrice. Vivian ha origine austriache e francesi e quando i genitori decidono di separarsi va a vivere con la madre da un’amica, Jeanne Bertrand. Jeanne era una fotografa affermata e trasmise la sua passione anche alla giovane Vivian Maier, che cominciò ad approcciarsi a questo mezzo.
Intorno al 1932 le donne decisero di tornare in Francia, dove rimasero fino ai 12 anni di Vivian, prima di emigrare nuovamente in America. Questo legame con la Francia porterà Vivian Maier a tornarci nel 1950 per la vendita di una proprietà di famiglia. Con i soldi ricavati decise di comprarsi una nuova macchina fotografica: una Rolleiflex professionale con la quale viaggia il nord America fino ad approdare a Chicago ormai trentenne. A Chicago riprese la sua carriera di governante, un lavoro che non amava ma che portò avanti per tutta la vita.
Visse per 17 anni con al famiglia Gensburg, che le aveva riservato anche un piccolo bagno nel quale era usuale sviluppare le sue fotografie. In tutti quegli anni solo una volta lasciò la famiglia, per intraprendere un viaggio di circa 6 mesi in giro per il mondo, visitando Italia, Francia, Filippine, Thailandia, lo Yemen e l’Egitto.
Lo sfogo della Maier era fotografare, ogni volta che usciva, che fosse per il suo giorno libero o per accompagnare i bambini da qualche parte, si portava appresso la sua macchina fotografica e scattava fotografie.
Quando lasciò la famiglia Gensburg si trasferì presso altre case in cui continuò il suo lavoro di bambinaia, ma smise bruscamente di sviluppare le sue fotografie. Nonostante ciò continuò a scattarne a volontà, passando alla fotografia a colori con fotocamere Kodak e Leica.
Il suo immenso lavoro fotografico viene scoperto solo nel 2007, 2 anni prima dalla morte dell’autrice, un po’ per caso. John Maloof è il giovane figlio di un rigattiere, che volendo fare una ricerca sulla città di Chicago spera di trovare qualche materiale fotografico che possa aiutarlo nel suo intento. Parallelamente viene a conoscenza di un box da sgombrare, perché l’affittuaria aveva smesso di pagare il canone di locazione. Per 380 dollari Maloof acquista tutti gli oggetti appartenenti alla Maier e scopre diversi scatoloni pieni di negativi e di rullini ancora da sviluppare, per un totale di oltre 150.000 fotografie.
Maloof stampa qualche foto e la pubblica sul social network Flickr avendo un riscontro immediato dalla rete che lo spinge ad approfondire la sua ricerca. Solo così il giovane ragazzo comincia a scoprire la storia di Vivian Maier e della sua vita da bambinaia. Immediatamente comincia a cercarla, ma l’impresa non è facile. Nel frattempo Vivian Maier, ormai anziana, vive in una casa tranquilla pagata dai bambini della famiglia Gensburg che aveva cresciuto. A Dicembre 2008 Vivian Maier scivola sul ghiacchio battendo la testa e, nonostante le cure, non riesce a sopravvivere. Maloof non riuscì quindi ad incontrare da viva la Maier per poter valorizzare il suo lavoro.
Arriviamo a Palazzo Pallavicini direttamente dalla stazione dei treni e senza accorgercene giungiamo nel centro storico di Bologna attraverso un tragitto inusuale. Palazzo Pallavicini si trova infatti a pochi passi da Piazza Maggiore e dalle due Torri.
Il palazzo venne costruito durante il XV secolo per la famiglia Sala. Negli anni passò di proprietà fino ad arrivare ai conti Isolani che attuarono una grossa ristrutturazione, facendo costruire anche il grande scalone monumentale dell’ingresso che ancora oggi lascia a bocca aperta. Negli stessi lavori venne anche costruita la grande sala con il più alto soffitto a lanterna di Bologna. Non era ancora abbastanza e così, nel 1690, tutte le sale vennero decorate dai grandi dipinti di Giovanni Antonio Burrini.
Il nome del palazzo lo si deve al maresciallo Pallavicini, ministro dell’impero di Carlo VI d’Asburgo, che scelse questo palazzo come propria residenza. Il palazzo, con il nuovo inquilino, acquisì sempre più importanza, ospitando al suo interno la diplomazia internazionale e mettendo in scena banchetti, concerti e cortei.
Palazzo Pallavicini era diventato talmente importante che, nel 1770, ospitò anche l’allora quattordicenne Mozart che si esibì divertendo l’alta aristocrazia europea del tempo.
Un’ulteriore ristrutturazione venne fatta dal figlio di Pallavicini, Giuseppe Pallavicini, che ottenuta la proprietà del palazzo diede il via ai lavori. L’intento era quello di trasformare il palazzo nel simbolo del neoclassicismo di alto livello e, per farlo, si alternarono vere e proprie squadre di artigiani e artisti. Vennero utilizzati massicci stucchi a decorazione delle stanze e non si contarono gli affreschi e i dipinti sui muri del palazzo. In questa stessa occasione venne creata la grande biblioteca che ospitò gli oltre diciottomila volumi del padre Gian Luca Pallavicini.
Qui si trovano ulteriori dettagli sul Palazzo Pallavicini e gli eventi che ospita.
La mostra di Vivian Maier a Palazzo Pallavicini è curata da Anne Morin, colpita dalla storia dell’autrice ma anche dal suo immenso archivio fotografico. Data la grande mole di materiale pervenuto e la completa disorganizzazione non è stato ancora possibile tracciare un’esaustiva selezione dei suoi lavori. Nonostante ciò le fotografie della Maier sono state chiuse all’interno di quel box troppo tempo, per attendere ancora di essere mostrate al pubblico.
Le poche note presenti su alcune fotografie derivano da ricostruzioni postume o da concise indicazioni annotate a mano sui suoi archivi. La mostra, organizzata in questo bel palazzo storico, è suddivisa in filoni fotografici: l’infanzia, le forme, la vita di strada, i ritratti, gli autoritratti e le fotografie a colori.
Ancora una volta al nostro arrivo troviamo una lunga fila all’esterno. Vista l’esperienza precedente, mi sono però ingegnato e, avendo acquistato il biglietto in prevendita abbiamo saltato tutta la fila e ci siamo diretti subito all’ingresso.
Cominciamo così la visita tra le varie sale di Palazzo Pallavicini.
Sarà stato per il suo lavoro, sarà stato per il loro essere senza filtri, ma Vivian Maier aveva un debole per i bambini e proprio per questo sono uno dei soggetti che più ricorrono nelle sue fotografie. Attratta da quegli sguardi così sinceri e diretti non poteva fare a meno di fotografarli anche nelle situazioni più divertenti. Nella mostra di palazzo Pallavicini c’è un’intera sezione dedicata alle fotografie di giovani ragazzi, quasi sempre per strada e spesso consapevoli di essere ripresi.
Un altro particolare ricorrente nell’archivio ritrovato di Vivian Maier è quello delle forme. L’attrazione di Vivian Maier per le forme lo si trova in diverse immagini, nella quale più che il soggetto sembra che l’autrice si sia fatta colpire dalla sua dimensione, dalla sua consistenza o ancora dalla texture formata dalla ripetizione di uno stesso soggetto all’interno dello scatto. In questa particolare serie di foto la forma diventa più importante del contenuto e, diversificandosi da tutti gli altri soggetti, questi scatti non hanno espressioni o significati particolari, se non la ricerca di un’armonia estetica all’interno dello scatto quadrato.
Per Vivian Maier fotografare rappresentava un momento di svago e di stacco dal lavoro anche se, alle volte, gli scatti venivano fatti durante le passeggiate con i bambini che accudiva per lavoro. Non è un caso, quindi, che la stragrande maggioranza delle fotografie della Maier ritraggono episodi di vita di strada.
Vivian Maier era a tutti gli effetti una street photographer attirata dalle situazione più bizzarre e caotiche, dove si percepiva un certo dinamismo e un certo movimento. La strada era la sua seconda casa e senza ombra di dubbio quella che le dava più ispirazione.
Vivian Maier era caratterialmente piuttosto riservata e diffidente dalle persone, ma nonostante questo amava fotografarle. Molti dei suoi scatti, catturati nella vita di strada, sono dei ritratti piuttosto ravvicinati delle persone. Nonostante la predilezione per i giovani nel suo archivio non mancano anche scatti ad anziani e famiglie. Quello che si può notare abbastanza rapidamente è la differenza con la quale ritraeva persone appartenenti a ceti sociali differenti: le persone più povere erano quelle con cui probabilmente entrava più in empatia, mentre quelle appartenenti alla classe sociale più agiata sono fotografate spesso con ironia o espressioni che mostrano un certo distacco tra il soggetto e la fotografa.
Probabilmente, però, gli scatti più iconografici di Vivian Maier sono i suoi autoritratti. La bambinaia fotografa amava riprendersi all’interno delle inquadrature, alle volte in maniera esplicita, altre in maniera più implicita. A palazzo Pallavicini sono esposti diversi autoritratti, alcuni davanti ad uno specchio, altri su materiali riflettenti sparsi per la città nella quale la Maier si imbatteva. Non sono rare nemmeno le fotografie in cui l’autoritratto si manifesta attraverso l’ombra dell’autrice durante le sue uscite.
Questi scatti sono quelli che solitamente vengono associati alle locandine delle sue mostre in giro per il mondo.
Quando Vivian Maier lasciò la storica famiglia dei Gensburg, con la quale lavorò per quasi 20 anni, continuò la sua passione per la fotografia. Ci fu però un cambiamento fondamentale nel suo approccio: abbandonò la Rolleiflex per passare alle macchine Kodak e Leica, abbracciando per la prima volta la fotografia a colori.
Un passaggio di questo tipo, per un fotografo, è una scelta piuttosto importante: non solo il risultato finale è piuttosto diverso per via dei colori, ma anche l’approccio al gesto del fotografare è diametralmente opposto. Mentre con una Rolleiflex ci si trova a fotografare con un mirino a pozzetto, non guardando direttamente la scena inquadrata, con le nuove macchine fotografiche il mezzo si interpone tra soggetto e autore, lasciando comunque una continuità allo sguardo di chi scatta che può incrociare gli occhi di chi viene ritratto.
Nella mostra a palazzo Pallavicini è presente un’intera sala, quella finale, dedicata agli scatti a colori della Maier.
Siamo stati all’interno della mostra per circa un’ora e mezza e già che siamo a Bologna ne approfittiamo per fare una passeggiata tra i suoi portici. Questa città mi piace molto, le sue dimensioni e i palazzi storici sono ottimi per vivere il centro storico a piedi. La parte che preferisco di Bologna è sicuramente piazza Santo Stefano con l’omonima basilica formata da 7 chiese, nonostante ai giorni nostri ne siano arrivate solamente 4.
La città ha un forte spirito universitario e, infatti, per le strade si vedono quasi esclusivamente ragazzi, oltre che i turisti.